Eugenia Grandet di Mario Soldati, Italia, 1946, 104′

Data di inizio
29 Maggio 2021
Data di fine
29 Maggio 2021
Categoria
    Archivio
Stato
Concluso

Eugenia Grandet, di Mario Soldati, Italia, 1946, 104′

Regia Mario Soldati / Soggetto Mario Soldati / Sceneggiatura Aldo De Benedetti, Mario Soldati, Emilio Cecchi (non accreditato) / Fotografia Vaclav Vich / Montaggio Eraldo Da Roma / Scenografia Gastone Medin /Suono Gino Fiorelli. Musiche Roman Vlad.

Interpreti e personaggi Alida Valli (Eugenia Grandet), Gualtiero Tumiati (Félix, suo padre), Giuditta Rissone (sua madre), Giorgio De Lullo (Charles Grandet, suo cugino), Lina Gennari (marchesa d’Aubrion), Pina Gallini (Nanon), Enzo Biliotti (notaio Cruchet), Mario Siletti (Corneiller), Egisto Olivieri (marchese d’Aubrion), Lando Sguazzini (abate Cruchet), Giuseppe Varni (banchiere De Grassis), Cesare Olivieri (presidente Cruchet), Gabrielle Bornura (Clorinda D’Aubrion), Maria Rodi (signora De Grassis), Enrico Luzi, Tullio Galvani, Vittorio Blasi, Mario Soldati

Produzione Excelsa Film. Distribuzione Minerva Film. Durata 106’ (3054 m)
Origine Italia. Anno 1946. Formato immagine 1,37:1

Nota Nastro d’argento per la migliore scenografia e migliore interpretazione ad Alida Valli

Eugenia (Alida Valli), figlia di un ricco e avaro possidente, si fidanza segretamente con un cugino. Questi viene allontanato dallo zio, che muore alla notizia che la figlia ha intenzione di respingere l’eredità. Ricco suo malgrado, la ragazza non riesce ad essere felice: il suo promesso sposo, appena tornato, intende sposarsi con un’altra, e ci riuscirà grazie al sacrificio (segreto) di Eugenia.
Tratto dal romanzo di Balzac e magistralmente interpretato da Alida Valli, Eugenia Grandet anticipa le più acute e moderne rivisitazioni cinematografiche di testi letterari, dalla Marchesa di O di Rohmer a Effi Briest di Fassbinder.

Un film rétro
In apparenza, Eugenia Grandet prosegue quasi ostinatamente, in pieno neorealismo, il filone del cinema “calligrafico”, gli adattamenti di classici ottocenteschi, cui nei primi anni ‘40 era legato il nome di Mario Soldati: Piccolo mondo antico, Malombra e in parte, a Italia appena liberata, Le miserie del signor Travet. Ma molto è cambiato, nel frattempo, e molte scelte stilistiche del film segnalano una direzione opposta rispetto ai lavori precedenti. Se Piccolo mondo antico era potuto sembrare un film importante anche per la riscoperta del paesaggio italiano (così l’aveva accolto Giuseppe De Santis sulle pagine di “Cinema”), e il gusto dei set tornava, come un incubo, in Malombra, qui siamo in una direzione completamente diversa. Il film, con le scenografie di Gastone Medin (grande ideatore di décor del cinema anni ‘30), è quasi tutto ambientato in interni. Ma questi interni, fin dalle prime sequenze e a dispetto dell’ambientazione paesana, sono sovraccarichi, debordanti, forse i più vistosi mai creati dal regista; come se vivessero di vita propria, a contrasto con esterni radi, fatti di alberi spogli e spettrali.

C’è quasi un che di provocatorio nel Soldati del 1946, che sottolinea il carattere artificioso, antiquato e teatrale del proprio cinema, e si barrica in teatro di posa mentre i registi scendono a girare sempre più in strada. Il distacco è dichiarato esplicitamente nella prima immagine: l’inquadratura del libro di Balzac con un pettine rovente sopra, che viene poi sollevato per curare i capelli del vanitoso Charles: una vezzosa mise en abyme che sarebbe stata impensabile nei film precedenti. Il regista sembra costruire di proposito un calligrafismo particolarmente rétro, quasi di secondo grado; di derivazione più filmica che pittorica o letteraria. Se Piccolo mondo antico si ispirava anche dalla pittura di paesaggio ottocentesca, qui Soldati sembra ispirarsi piuttosto al cinema muto, come a porsi in opposizione all’idea stessa di una presa diretta sulla realtà. L’artificio, le luci e ombre della fotografia di Vaclav Vich ricordano da vicino il cinema degli anni ’20, così come certe soluzioni di regia: il ricordo del cugino con la sua immagine in controcampo, la morte del vecchio Grandet in montaggio alternato col matrimonio, e con in sovrimpressione il mantello donato alla chiesa. È come se il regista affermasse proditoriamente che dietro il cinema, il suo ma non solo il suo, c’è tanto altro: la pittura, la letteratura ma soprattutto tanto altro cinema.

In Eugenia Grandet la scelta estetica è dunque di esplicito anacronismo, ma d’altro canto il film presenta anche caratteristiche fortemente moderne, con l’uso delle inquadrature dal basso che mostrano la «quarta parete» del soffitto, e accenni di profondità di campo nella messa a fuoco, fino al virtuosismo nella scena della rinuncia dell’eredità: un’inquadratura di Eugenia, mentre su di lei incombe il padre, e sullo sfondo il notaio fa da imbarazzato testimone. Questo accumulo di stilemi è significativo: alla «riscoperta della realtà» del neorealismo trionfante, Soldati pare contrapporre la consapevolezza di una precoce vecchiaia del cinema, uno schermo pieno, carico: le opzioni linguistiche del cinema contemporaneo servono soprattutto a soffocare l’immagine di oggetti di scena, a rendere più visibile il peso del passato dentro l’inquadratura. Lo stesso stile degli attori è più teatrale e rétro a e il set è esplicitamente pensato ed esplorato come un palcoscenico, con i dialoghi spesso non ripresi in campo /controcampo, ma in eleganti riprese con i i personaggi in scena, appunto come se fossimo a teatro.

Un film doppiamente rétro, dunque, nei propri modelli figurativi e in quelli di recitazione: De Lullo attor giovane, Giuditta Rissone moglie sofferente, Pina Gallini rude domestica di campagna, e soprattutto un nodoso Gualtiero Tumiati-Grandet, che gigioneggia riportando il padre Grandet alla sua radice, l’Arpagone di Molière. Gallini e Tumiati, poi, si lasciano scappare toscanismi (“E che ci vòle? ‘E son fuscelli”, “le ova”) che fanno pensare a un Balzac avvicinato linguisticamente a Federigo Tozzi. Soldati rende omaggio a una certa scuola primo-novecentesca di teatro italiano, a un certo tipo di attori, che egli ha sempre amato. Alida Valli (che era in attesa del visto per recarsi a Hollywood, e che per questo film vinse il Nastro d’Argento) frena l’intensità giovanile mostrata in Piccolo mondo antico, ma rimane il baricentro del film si impone visivamente fin dalla sua prima apparizione, in elegante sottotono nel campo lungo di una tavolata, con abiti dimessi. Il personaggio è perfetto per lei, che riesce a renderne le minute sfumature: prima sottomessa e poi sempre più forte, nelle reazioni al padre terribile, nel dignitoso comportamento verso il cugino, nella composta tristezza del finale.

Insomma, Soldati è come sempre in provocatorio controtempo: troppo indietro e troppo avanti. Gioca a fare il vecchio perché è contemporaneamente proiettato verso una visione quasi distaccata, saggistica del cinema, che, come ha scritto Lucilla Albano, rende Eugenia Grandet “profondamente anticipatore nell’interpretazione in chiave sottilmente psicanalitica e femminile del romanzo di Balzac” e precursore delle più acute e moderne rivisitazioni cinematografiche di testi letterari, dalla Marchesa di O di Rohmer a Effi Briest di Fassbinder.
Emiliano Morreale

 

  • Data di inizio
    29 Maggio 2021 18:00
  • Stato
    Concluso
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